Lettera a Silotta

Lettera a “Silotta”

di Luigi Rovatti (Lollo)

 

Il rag. Luigi Rovatti (Lollo), allora studente, nato a Modena il 26/02/1925, il 13 marzo 1944 era stato preso in rastrellamento, fatto arruolare nella R.S.I. e inviato in Germania per il periodo di addestramento. Al suo ritorno in Italia, inquadrato nella divisione “San Marco”, verso la fine di luglio 1944, disertò per raggiungere la formazione partigiana (I° Distaccamento “Angelo Perrone”) nei pressi di Villatalla (IM). Venne ferito durante un rastrellamento a Pietrabruna, rimase in montagna fino alla Liberazione.

 

 

A Silotta con tanta riconoscenza

E' una delicata pagina scritta anni dopo dal vivo ricordo di quei drammatici momenti: è l'espressione di un sentito e accorato sentimento di riconoscenza per una madre che fece le veci della sua lontana madre vera rischiando la vita. Silotta fu una “tra le altre meravigliose donne liguri”, conosciute e ricordate dall'ora partigiano “Lollo”, una donna che per debito di riconoscenza egli ricerca con difficoltà dopo tanti anni, e che finalmente trova, vecchia e malata, per un ultimo riconoscente e commosso abbraccio. Silotta è il sopranome, come si usa chiamare la gente nei nostri paesi, della signora Cecilia Cane di Pietrabruna.

 

Pietrabruna, 14 dicembre 1944

Sta calando la sera ed il freddo si fa pungente; é stata una giornata terribile, al mattino, durante un agguato tesoci dai tedeschi, sono stato ferito ed ho un proiettile conficcato nella colonna vertebrale e la gamba sinistra completamente paralizzata. I miei compagni si sono dispersi ed io sono rimasto solo, in un pollaio diroccato nei pressi del paese. Ho visto passare i tedeschi a non più di trenta metri con il mio cappotto macchiato di sangue, il mio fucile ed il nastro di mitragliatrice rimasti sul luogo del ferimento. La mia famiglia, la mia Modena, mi paiono lontane, su un altro pianeta ed io sto piangendo di rabbia; morire così, a diciannove anni, solo come un cane, mi sembra una cosa disumana. Finalmente mi decido e strisciando mi porto vicino alla mulattiera; Chissà se passera qualcuno e se sarà un amico o un nemico. Sono li da un quarto d'ora quando sento dei passi avvicinarsi, stringendo i denti aspetto e vedo comparire una donna che, alla mia vista, lancia un grido e si avvicina. “Sono Lollo della banda di Danko e sono ferito” dico io e lei mi risponde”Sono la madre di Leone” (un partigiano della banda di “Artù”). Si china per osservare la mia ferita ed io l'abbraccio piangendo e mormorando: “Se mi vedesse mia madre”. “Torno presto, stai tranquillo” ed infatti, poco dopo, la notte è ormai calata, alcuni uomini con una scala, mi portano più lontana dal paese, in un casone abbandonato. Subito arriva la madre di Leone con una coperta, dell'acqua, due arance ed alcuni fiammiferi e mi assicura che tornerà presto appena potrà. I tre giorni seguenti sono un inferno, tedeschi e fascisti dappertutto imperversavano; rastrellano, bruciano, uccidono, portano via il bestiame, sparano con i mortai sul paese (è di quei giorni il martirio della vicina Torre Paponi con i suoi 24 morti) ed io mi sento in trappola come un capo di selvaggina ferito, che sta per essere catturato ed abbattuto. Infatti per loro sono un disertore ed un bandito da eliminare senza riguardi e chiunque venga sorpreso ad aiutare un partigiano viene ucciso senza pietà e la sua casa bruciata. Ma lei la madre di Leone, di giorno o di notte, appena può, continua a portarmi da bere e da mangiare, a curarmi e a confortarmi, incurante dei rischi (le spie in paese non mancavano), sempre serena e materna. Al quarto giorno i tedeschi e i fascisti si ritirano ed i miei compagni vengono a prendermi per ricoverarmi in un ospedale partigiano. Lei mi saluta con una lacrima ed un abbraccio ed un bacio sulla fronte, senza nulla chiedermi, Passarono i mesi, altre meravigliose donne liguri tra cui Fernanda, Luisa, Mannuccia, Teresa e sua madre, incuranti dei rischi che corrono, mi nascondono, mi assistono, mi curano, in una parola mi salvano. Finalmente primavera la guerra finisce: sono ricoverato all'ospedale di Porto Maurizio, Ma l'operazione per l'estrazione del proiettile non riesce, poi la lunga convalescenza ed in fine il ritorno a casa dove, piano piano torno a sentirmi una persona normale.

 

Sempre mi rimane nel pensiero il ricordo di quella donna che con abnegazione e sprezzo del pericolo mi ha assistito nei giorni più duri della mia vita e negli anni successivi, per ben tre volte, torno a Pietrabruna, ma non riesco a trovarla. Saprò poi che molti compagni di quei giorni sono lontani per lavoro ed ho troppi pochi elementi per rintracciare quelli rimasti. Il tempo e la vita scorrono inesorabili finché, dopo trentotto anni Danko, non molto distante da Pietrabruna, ed altri compagni del luogo riescono a rintracciarmi a Modena e mi riferiscono che tutti coloro che mi hanno conosciuto e si sono presi cura di me sono desiderosi di avere mie notizie e, in particolare una anziana signora di Pietrabruna, degente all'ospedale, vuole rivedermi prima di morire; finalmente conosco il suo nome: Silotta. Torno di corsa e quindi ci incontriamo. Ci abbracciamo commossi e vedo lacrime di gioia spuntarle sul viso; rivedo Leone e conosco gli altri suoi figli e vengo così a sapere che in quei lontani terribili giorni Silotta stava allattando l'ultimo suo nato di pochi mesi. Quando le chiedo perché l'abbia fatto, perché abbia corso tutti quei rischi per un ragazzo che neppure conosceva in un momento in cui la sua famiglia aveva tanto bisogno di lei mi risponde semplicemente

 

“Perché sapevo che se fosse successo altrettanto a mio figlio, un'altra donna

avrebbe fatto per lui quello che io ho fatto per te”.