C'erano una volta i pastori

C'erano una volta i pastori

 

E' quasi Natale, alcuni di noi si accingono ad uscire i pastorelli dalla loro scatola e a posizionarli nel presepe; mestiere in disuso, quello del pastore, non più attuale, ma i pastori c'erano anche a Pietrabruna,non molti anni fa: Tumé, Giusin,Maddalena e Beppe, alcuni venuti da Verdeggia e in fine quelli che ho conosciuto io, i fratelli Pesjai Giovanni e Attilio,pastori in fondo all'anima per vocazione, per amore, quasi da presepe.

Lo zio Attilio è stato l'ultimo pastore di Pietrabruna. Ero solo una ragazzina ma ricordo perfettamente il dolore e il rammarico con cui si sbarazzò della sua “scorta” a causa dei suoi problemi al cuore.

Non era di sicuro una vita facile, le bestie richiedono continue attenzioni devono essere portate al pascolo tutti i giorni, con il bello e il cattivo tempo, i giorni feriali e quelli festivi, devono essere munte, il formaggio e la ricotta da fare: una vita spesa tra la stalla a i prati con mille preoccupazioni, chiedere a questo, se puoi far mangiare la sua erba, stare attento a quello, che invece non vuole dartela, alcuni proprietari, mi raccontava la nonna, andavano a sorvegliarsi l'erba con il fucile.

E poi arrivava il mese di giugno con la transumanza e l'alpeggio, il primo mese si trascorreva a San Salvatore posto comodo, non lontano dal paese, bella casa. Ai primi di luglio gli uomini si mettevano di nuovo in marcia con le bestie e dopo due giorni di cammino raggiungevano Cima Marta. Una tappa di questo viaggio era a Corte e mia madre con la zia Gina partivano a piedi portando canestri di vettovaglie per rifocillare gli uomini. Negli ultimi anni avveniva tutto in modo più agevole, almeno per le donne, dopo che mia madre prese la patente, in compenso aumentarono le preoccupazioni: la strada verso Cima Marta non si poteva certo considerare comoda e sicura.

L'alpeggio per me era una festa, (di diverso parere era senz'altro Milva, ma lei ormai era una signorinella, sentiva la mancanza delle amiche) ero impaziente di partire, ma puntualmente ero destinata a lasciare Pietrabruna sull'ultimo convoglio per la Montagna. A Marta si radunavano diversi pastori: due o tre francesi a seconda delle stagioni, Button, Pierin”Caramellotto”, Dunà, sono quelli che ricordo con maggior affetto, e quelli di Pietrabruna lo zio Attilio e mio padre con i loro servitori. Si radunavano le pecore in un'unica “vastera” e si partiva con la stagione.

La nostra casa, sarebbe più giusto definirla casolare, casotto, ma non importa, era composta di due sole stanze il cucinone con un tavolo lunghissimo, che alla sera ci ospitava tutti assieme (di giorno si mangiava a scaglioni,mano a mano che i pastori arrivavano o che i “formaggiai” ossia quegli uomini addetti a fare il formaggio erano pronti), e un'enorme “fugurà” oggi si potrebbe chiamarlo camino, ma che allora non serviva per decorare la stanza, ma bensì per scaldare l'ambiente, la sera era sempre molto fresca, per cucinare e cosa più importante permetteva di mettere sul fuoco con un trespolo di legno rotante “u paiò deru laite”, un paiolo che conteneva tutto il latte giornaliero destinato a diventare formaggio all'incirca 160 Kg. L'altra stanza era la camera da letto, ah! Scusate non vi ho detto che il tutto era diviso da una simpatica tendina a fiori, dunque per riprendere il nostro discorso vi stavo descrivendo la camera da letto costituita da un soppalco fatto da tronchi d'albero e assi lungo circa tre metri che fungeva da lettone, con tanti materassi uno vicino all'altro che ognuno ricopriva con le sue lenzuola, in mancanza di queste molte volte ci aggiustavamo con delle tende bianche da olive, vi erano inoltre alcune brandine appoggiate sul pavimento.

Per me era una cosa straordinaria anche andare a dormire. Sul soppalco si disponevano prima le donne di famiglia, poi le altre e a chiudere sui due lati ognuna aveva i propri uomini, solitamente le brandine venivano usate dagli uomini soli.

In montagna la vita non era meno faticosa, le bestie erano da disinfettare e si preparava una vasca con verde rame dove si facevano passare una ad una; c'erano i sali minerali da reintegrare e allora si spargeva sale sulle rocce, cosicché potessero leccarlo senza ingerire terra; e poi i salvataggi, poiché qualche pecora a volte scivolava in un burrone e gli uomini si prodigavano sino a trarla in salvo, ad ogni modo non si potevano evitare alcune perdite, le bestie che si infilavano nei fortini o venivano morse dalle vipere difficilmente erano recuperabili.

L'estate trascorreva via velocemente, tra una scottatura Milva e a me bolle su tutto il corpo, per giorni non potevamo stenderci, e le visite che parenti e amici ci facevano alla domenica.

Era una gioia, i visitatori di solito portavano qualcosa da mangiare che per noi era difficile conservare o procurarci e pane fresco (noi mangiavamo dei pannoni francesi che mio padre scendeva a prendere a Briga una volta a settimana, a dire il vero si manteneva piuttosto bene) e a volte si fermavano per la notte, soprattutto se in serata era scoppiato uno dei tanti temporali con chicchi di grandine grandi come uova.

E poi c'erano le sere, tutte speciali, le donne ad aspettare che gli uomini arrivassero dal pascolo, la mungitura che relegava me al ruolo di aitante cagnolino, io e i cani dovevamo spingere le pecore verso la porta dove i mungitori le aspettavano, avevo anche un piccolo secchiello per poter mungere le pecore anch'io, alla fine della sera non credo di aver mai avuto più di due dita di latte sul fondo; infine la cena e i racconti dei pastori, sulla loro giornata o storie di avventure e disavventure capitate ad altri pastori.

Così un'altra stagione era finita, rimanevano due cose da fare: quella che io definivo la festa del formaggio, e la divisione del gregge. Per la prima si tiravano fuori le “tume”, si stendevano su un panno e si posava tutti assieme per una foto ricordo, dopodiché ogni pastore si prendeva una parte del formaggio da vendere, in base al numero delle sue bestie e ai litri di latte che loro producevano, non mi ricordo della spartizione del “brusso” e non so neanche come avvenisse, a causa del suo odore non lo consideravo proprio. Invece mi affascinava la divisione delle pecore, ognuno riprendeva le sue che conosceva una ad una anche se ne possedeva un centinaio, non restava nient'altro da fare, si tornava a casa.

Se l'estate era stata molto secca gli uomini facevano una sosta prolungata a Corte sinché l'erba nei prati di Pietrabruna non fosse stata pronta, ma la mia avventura era finita.

Non me ne vogliate, se nel mio racconto i pastori e le pastorelle assumono un'aria che fa pensare ai paesaggi bucolici delle porcellane di Dresda e se in alcuni momenti a qualcuno sembrerà di sentire la Pastorale di Beethoven con tanto di temporale come nel fil “Fantasia”, io avevo soltanto sei anni e tutti mi sembrava eccezionale, speciale, insomma qualcosa di insolito che non tutti facevano.

Il racconto avrebbe avto senz'altro diverso tono se a scriverlo fossero stati i miei genitori o la nonna, ma a me piace ricordare quegli anni così con la gioia e la spensieratezza di una bambina.

Buon Natale e Felice Anno Nuovo

 

Gianna deri Pesjai

 

Tratto da: “U Prebunencu” anno III n°1 dicembre 1998